croci e cerchietti

E' il gioco del tris che mi ha impegnato per anni sui banchi del liceo. No, non avevamo niente di meglio da fare. Io e il mio compagno di banco (lo stesso per quattro anni, dalla seconda fino all'anno della maturità). Essendo dotati di un cervello superiore di almeno un neurone a quello di una triglia sul banco del pesce e almeno di due a quello della media degli studenti liceali (sì, è così, e allora?) ce ne stavamo per ore a giocare a tris, ben sapendo che nessuno dei due avrebbe mai potuto vincere. Relegati all'ultimo banco, per tre anni, dalla terza fino all'anno della maturità, entrando in fondo a sinistra, nascosti dietro l'attaccapanni. Ne venivano fuori delle belle da là dietro, noi vedevamo tutti e gli unici che ci potevano vedere (a meno che non ci nascondessimo dietro l'attaccapanni) erano gli insegnanti. Posizione privilegiata la nostra. Ad ogni inizio di anno scolastico i posti si rimescolavano, c'era sempre quello che voleva andare vicino a quella perché ci voleva provare, c'erano quelle che non volevano più la loro vecchia compagna perché durante l'estate avevano litigato per un rossetto o perché una aveva baciato il ragazzo dell'altra. Ma i nostri posti no, quelli erano nostri e basta. Facevamo un casino d'inferno. E i professori provarono non so nemmeno quante volte a "dividerci", come dicevano loro. L'unico risultato era che il casino invece di essere concentrato nell'angolo in fondo a sinistra si sparpagliava per la classe, con le nostre cazzate sparate come colpi di mortaio da una parte all'altra. E nelle lunghe ore che ci separavano dall'intervallo o dalla salvifica campanella di uscita, giocavamo a tris, imperterriti, ripetendo lo stesso schema centinaia di volte, come in un gesto automatico che aveva lo stesso senso delle parole. Abbiamo provato a cambiare gioco. Provammo anche a giocare a scacchi, con pezzi ritagliati da un foglio di carta e la scacchiera disegnata direttamente sui banchi. Disegnammo anche la carta del Risiko sui banchi, e non ci giocammo mai. Il tris, e soltanto quello, perché non richiedeva preparazione, perché era una via di fuga istantanea dalla noia, uno dei due impugnava una matita e tracciava le favolose quattro linee nella terra di nessuno tra i due banchi e aspettava, senza dire nulla, che l'altro mettesse il primo segno. Poteva succedere subito, o potevano passare delle ore, dei giorni a volte. Le nostre partite di tris potevano durare pochi secondi o intere settimane, bidelle e pulizia periodica dei banchi permettendo.

Era il fascino discreto della battaglia che non puoi vincere, era l'idea stessa che alla fine, ben che vada, puoi pareggiare.