Guardando prestigiatori attraverso un vetro appannato

Un mese di pioggia e poi l'inverno.

L'inverno quello che piace a me, di quelle giornate nitide, talmente perfette che se vai sul dizionario alla parola "terso" c'è la data di oggi.

Freddo, sciarpa guanti e occhiali scuri, quelli più neri che ho, residuato bellico degli anni novanta con la loro celluloide nera e consumata. Con gli occhi nascosti dietro le lenti spesse uscire per fare due passi. Non sento freddo c'è solo il bianco del mio respiro a ricordarmi che fuori si gela.

Vetri appannati e strani riflessi, anche questi di quelli che piacciono a me, quando le cose diventano un po' indistinte e il confine tra dentro e fuori lentamente diventa meno nitido. Delineare i contorni delle cose e dargli un nome, trovarlo, prima di tutto, il nome delle cose. E ci vuole tempo, tutto il tempo necessario affinché quelle cose strane che navigano per giorni nel mio retrobottega cranico si decidano a prendere la forma delle mie parole. C'è qualcosa che ti sembra di aver capito, ma ancora ti sfugge e solo descrivendola riesci a farla tua. E ci sono immagini e frasi in rigoroso ordine sparso e spesso per ordinarle devo partire dalla fine. Perché è proprio dalla fine che spesso si parte e poi si risale, si va a ritroso, tentando di ricostruirsi un cammino che c'è stato ma di cui raramente si è coscienti. Perché a me, e forse un po' a tutti, piacciono le cose finite. Non è facile capire come una cosa è stata fatta, come le cose diventano quello che sono, ma spesso non ce n'è bisogno. Da grandi ci lasciamo affascinare ancora dai vecchi trucchi dei prestigiatori, ci piace la magia anche se sappiamo benissimo che non esiste.