C'era odore d'acqua nell'aria, quella notte.
Odore d'acqua portata dal vento:
non ricordo com'era iniziata esattamente,
ma adesso parlavamo: parlavamo tanto.
O meglio.
Io parlavo: libresco, cervellotico, logorroico e pedante.
Tu ascoltavi: ascoltavi i miei deliri, anche quando mi perdevo dietro a un pezzo vecchio di trent'anni.
Giocavamo, ed era pericoloso, ma divertente.
Approfittavamo delle nostre rispettive vanità:
io ricordandoti quanto tu fossi bella,
tu ricordandomi quanto io fossi interessante.
Giocavamo, ed era pericoloso, ed eccitante.
Poi una sera, non t'aspettavo, ma t'aveva mollato, lo stronzo, e bussasti alla mia porta.
Entrasti in casa mia come una furia:
delusa, amareggiata, impetuosa e incazzata.
Io buttato sul mio divano, tu un poco più distante,
finimmo quella sera col parlare a lungo, come sempre:
di te, di lui, del futuro e delle cazzate dei vent'anni.
Parlammo dei segni addosso, di chi se li fa dentro, di chi indosso.
Divagammo, finalmente, dai massimi sistemi e tornasti a ridere delle mie battute sconce.
Mi dicesti che parlare con me era come confessarsi, anzi, meglio:
senza le preghiere e senza la morale in fondo.
Ma nel frattempo cercavi vendetta, avevi sete di sangue.
Me ne accorsi, ero pur sempre un uomo:
ci provai, era evidente, cercai di portarti a letto.
Te ne accorgesti, anche tu, eri pur sempre donna:
ti piacque quel gioco, ma rimanesti distante.
Lottai, con tutte le mie armi: parlai dei tuoi occhi, dei tuoi capelli, delle tue gambe.
Abusai ancora della tua vanità e, lentamente, ti stavo accerchiando.
Vidi qualche segno di cedimento, poi me ne uscii con quella frase:
quando parlo con te non andrei mai a letto
Cogliesti l'occasione, ti alzasti rapida, devo dormire, dicesti, è tardi.
Te ne andasti.
Rimasero il tuo profumo e un rumore sullo sfondo.
Il rumore che lascia una tempesta,
dopo che è passata, quando è distante.