Il volto del mago

Avrò avuto dieci anni e tutto sommato ero un bambino abbastanza normale. Come a tutti i bambini normali mi piacevano da impazzire i fuochi artificiali. Fumo e odore di zolfo, un'anticamera dell'inferno nel naso e luce, uno spettacolo da paradiso, negli occhi.

I fuochi sì, ma soltanto una volta all'anno. Solita festa del solito santo patrono.
Cosa? Il nome del patrono? E io che ne so, non mi sono mai interessato gran che alla gente famosa.

Era settembre, questo sì me lo ricordo bene, perché finiva l'estate, che eravamo tutti tristi perché da lì a qualche giorno sarebbe ricominciata la scuola, e quella era l'ultima, ma veramente l'ultima, occasione per far festa.

La festa era un prato con quattro banchetti di cianfrusaglie e uno di dolci. E la festa eravamo noi: bambinetti scalmanati che correvamo rincorsi da madri che, sull'orlo di una crisi di nervi, urlavano disperate l'epica frase "non correre che poi sudi" (pensa se avessero saputo quel che costa adesso l'iscrizione in una qualunque palestra dove l'unica cosa che vai a fare è sudare, perché sì, uno prova anche a rimorchiare in palestra, ma, almeno a me, non m'è mai riuscito).

E la festa erano i fuochi aritificiali.
Era il momento che tutti aspettavamo.

Centinaia di facce, tutte uguali, con il naso all'insù e la bocca spalancata, già pronta per la cascata delle o di meraviglia.

Avrò avuto dieci anni, dicevo, e anche io ero là, seduto sul prato in mezzo alle facce tutte uguali e non so come, non so perché, per un attimo i miei occhi caddero giù, e mi accorsi che dietro quella magia c'era un mago. E questo mago era un omino basso, nervoso e vestito di scuro. E correva, come un pazzo, e dalle sue mani, ogni volta che si fermava, sprizzavano scintille.

Le sue mani: e il suo volto. Teso nello sforzo e concentrato come se stesse recitando una preghiera, che deve essere precisa, dove ogni parola deve essere quella giusta e la devi dire al momento giusto. E nero. Il suo volto era nero, ma non di quel nero senegalese che conosciamo un po' tutti, era il nero della fuliggine, del fumo, della polvere pirica penetrata ormai nella sua pelle. Era un nero da miniera, quasi.

E poi mi ricordo i tre botti di luce, che tutti conoscevamo, che tutti sapevamo essere il gran finale della nostra estate.

Quella volta i tre botti li ho sentiti ma non li ho visti, che io, ormai, guardavo soltanto il volto del mago. E lui, nella luce del gran finale, senza più fretta, finalmente fermo in mezzo al cartone sbruciacchiato e ai lapilli incandescenti che cadevano dal cielo, alzò lo sguardo e guardò noi: guardò noi e le nostre facce vestite tutte uguali e: sorrise.

Un sorriso sfinito, coperto di fumo e sudore, ma un sorriso di quelli che, oh, se ne fai uno così ad una donna, quella sicuro che si innamora.

Non sono più andato a vedere uno spettacolo di fuochi artificiali in vita mia, che io alla magia mica ci credo.