Questo è un po' lungo, ma dovrebbe piacervi, stronzi (cit.)

Ne erano successe di cose strane, cazzo. E un cazzo era proprio quello che c'avevo capito, come al solito. Ero rimasto alla fine solo e stordito nel silenzio, come al solito. Era già notte fonda quando te n'eri andata. Anzi, era già notte fonda quando mi avevi chiesto di riaccompagnarti a casa. Lo ammetto, il mio: se vuoi puoi dormire qui, era stato tremendamente fiacco e poco convincente. Non era quello il modo di dirlo, certo, ma avevo già troppe cose che mi frullavano per la testa, e poi, diciamoci la verità: io queste cose non le ho mai sapute fare. Finché è una cena, un caffè, un bicchiere di vino, quattro chiacchiere: tutto perfetto, calibrato al millimetro: poi: il niente, quando si tratta di arrivare al dunque non so mai che pesci prendere.

Avevamo ammucchiato parole tutta la sera. Fin da quel tuo arrivo improvviso, da quando eri ancora di fronte alla porta e sotto quella pioggia torrenziale. Ho perso l'autobus, mi avevi detto, non sapevo dove andare, mi sono rifugiata in un bar e poi mi sei venuto in mente tu e mi sono ricordata che abitavi, anzi abiti, a due passi da lì.

Sorpreso? Sorpreso è dire poco, ero venuto ad aprire masticando bestemmie, ancora incastrato su quella pagina del mio nuovo libro che si ostinava a rimanere bianca nonostante tutti i miei sforzi. Il postino con l'ennesima multa per divieto di sosta o con un'altra bolletta avevo pensato, beh, erano mesi che il campanello suonava solo per il postino, cos'altro avrei potuto pensare.

Avevo aperto la porta senza nemmeno guardare e m'ero trovato davanti te, fradicia da capo a piedi.

Ciao, avevi detto, come se rivedersi dopo cinque anni (cinque vero? cinque ne erano passati?) fosse la cosa più normale del mondo.

Silenzio.

Silenzio.

Ciao. Avevo detto.

No, rivederti dopo cinque anni non era la cosa più normale del mondo.

Mi fai entrare?

Sì, certo. Entra pure.

Ti eri fatta spazio tra le cianfrusaglie ammucchiate nel piccolo ingresso, cataste di libri, bollette non pagate, il mio catastrofico disordine che anni prima avevi tentato, senza troppa convinzione e fortuna, di curare.

Le parole erano sgorgate da sole, come se ci fossimo visti il giorno prima e invece dovevo raccontarti cinque anni di vita, un libro e il successo improvviso. E tu eri rimasta là ad ascoltarmi, come avevi sempre fatto. E io lì a parlare preso da me, dal mio narcisismo sfrenato e dalle mie mille ossessioni.

Soltanto alla fine me lo avevi detto. Sai, mi sono sposata, ho un figlio.

Non lo so con certezza, non m'ero visto in faccia, ma sono abbastanza sicuro di aver strabuzzato gli occhi e di essere diventato di un pallore mortale.

Silenzio.

Silenzio.

Non avevo avuto niente da dirti, nemmeno un auguri, un sono felice per te o una qualunque altra frasetta di circostanza del cazzo.

Poi tu avevi iniziato il racconto. I tuoi ultimi cinque anni: la tua vita. E io me ne ero rimasto in silenzio, come raramente mi accade.

Si è fatto tardi, avevi detto alla fine, accompagnami a casa.

Puoi restare se vuoi e avevo già le chiavi della macchina in mano. Meglio di no, avevi detto, a casa ho un sacco di cose da fare... ah già, la famiglia, avevo risposto.

Uno ciao fu ancora l'unica cosa che ebbi il coraggio di dire, tu invece un ci rivediamo presto che suonò falso anche a te rimbalzando sul mio certamente.

La portiera e poco dopo la porta, prima che mi riuscisse di mormorare quel tra altri cinque anni, anche dieci, se ti va.